«La prima cosa che ho amato dell'Italia? Il mare. Per questo sto tra Palermo e Mazara. Ormai fuori dal calcio che conta, non mi resta che il mare anche se qualche partita la sbircio, ogni tanto».
A 75 anni Zdenek Zeman ci scherza sopra anche se un fondo di verità c'è. Il calcio lo ha emarginato, non gli ha perdonato certe sparate contro il sistema, così l'abbiamo dovuto scovare laggiù, dove spira tanto il vento, nella sua Sicilia. Avvolto dai fumi delle sigarette, il boemo parla al rallentatore e, con smorfie attornianti, ci suggerisce di leggere oltre le righe di quello che sentenzia con voce metallica.
«Non c'è un perché, oppure ce ne sono tanti. Arrivai qui ragazzino da Praga e l'isola mi piacque subito, forse perché vive la storia e i propri drammi con dignità. Nelle ultime settimane Palermo ha ricordato Falcone e Borsellino, vittime del lato peggiore di questa terra. Ma qui dicono che i signori della mafia, negli ultimi tempi, se ne siano andati a Milano. Boh... Ma parliamo di calcio, non è meglio?».
Certo. A lei piace quello attuale?
«Partiamo da una certezza: il calcio è cambiato rispetto a un tempo, ma in meglio o in peggio? Tutti dicono che c'è progresso in tutti i settori della vita, facciamo quindi finta che il calcio sia cambiato in meglio».
Lei pensa il contrario?
«Se il calcio deve essere un business e basta, hanno ragione loro. Però io lo considero ancora uno sport».
Per quello fondò il partito di Zemanlandia, negli anni Novanta, una vera rivoluzione copernicana per il pallone?
«Ho sempre considerato il calcio un mezzo per non far dormire la gente allo stadio. Convinzione che mi veniva dalla pratica sportiva che ho fatto all'Università dello Sport a Praga dove giocavo a pallamano e a hockey su ghiaccio. Amo lo sport puro mai schiavo del business, fatto di divertimento ma anche di lavoro estremo».
Fu allora che nacquero le temutissime sedute di allenamento di Zeman?
«La preparazione fisica perfetta è la base del risultato che si ottiene, poi, in campo. Oggi vedo alcune squadre, anche top, che si allenano poco. I giocatori sono stanchi dopo due corsette, si mettono le mani ai fianchi. In Inghilterra corrono il doppio e si allenano meglio».
Per questo motivo la Champions manca in Italia dal 2007?
«Anche per questo. I giocatori tengono troppo la palla e camminano. Rallentano tutto. Non velocizzano, non mangiano il campo».
I detrattori dicono: Zeman ha vinto poco o nulla in carriera.
«Non mi è mai importato vincere a tutti i costi, quella è una regola arida oggi in voga, purtroppo anche in squadre che vorrebbero vincere in Europa. Ai miei giocatori, sin dai tempi del Licata, dicevo: segnate un gol in più dell'avversario. Giocate con gioia. E non è vero che disdegnassi la fase difensiva, la regola era cercare il risultato attraverso la bellezza».
Al Foggia creò una filosofia di gioco unica e Signori ne fu il profeta, vero?
«Grande Beppe. Ma il giocatore più forte che ho allenato in 30 anni di calcio è stato Totti a Roma. Vedeva cose in campo che altri, pur bravini, non riuscivano a notare. Francesco si allenava bene ma non ne aveva bisogno».
Oggi quale squadra le piace in Europa?
«Il PSG, non vince la Champions perché Neymar e Mbappè pensano solo a divertirsi. In Italia, invece, noto che c'è la tendenza di ricreare un campionato vario con sette sorelle, come una volta: Juve,
Inter, Milan, Roma, Lazio, Napoli e Fiorentina. Tra esse mi convince di più il Milan. Ha vinto giocando meglio di tutte anche se Ibra è stato in campo poco o niente. Se ha avuto meriti, li ha evidenziati nello spogliatoio».
Esiste l'allenatore perfetto?
«È quello che insegna calcio, non quello che mette undici giocatori in campo per fare fortuna. Migliorare un giocatore che viene contestato da tutti rappresenta una vittoria importante. A me capitò con Tommasi, con Di Francesco».
Lei è considerato da Sacchi e Guardiola un maestro. Intravede, oggi, un giovane Zeman?
«Italiano. Ha fatto bene a Spezia e benissimo a Firenze. Ha gusto estetico e preparazione tattica».
Come vede la Roma con Mourinho?
«Mou è un personaggio che attira attenzione e piace tanto a voi giornalisti. Però il campo è un'altra cosa».
Per la Juve è un brutto colpo l'infortunio di Pogba?
«La Juventus non può basarsi su un giocatore. Deve essere costruita per vincere ma a prescindere da Pogba».
A proposito di Juventus, nel 1998 lei denunciò un calcio in mano alle farmacie. Poi puntò il dito contro Calciopoli e il calcioscommesse. Non si è mai pentito di quelle dichiarazioni?
«Se oggi ci fossero gli stessi problemi di allora, ripeterei per filo e per segno quello che dissi all'epoca. Ricordo che nel 1999, al mio secondo anno alla Roma, arrivammo quinti con 21 punti sottratti per strani errori arbitrali. Ora sono fuori dal calcio, come le dicevo, e spero che vicende simili o come quella capitata a Palomino, rimangano fatti isolati. Ma dicono che le cose siano cambiate. Non è così?».
Tra il fumo della Marlboro, spunta l'ultima smorfia.
Autore: Redazione 1 TuttoPotenza / Twitter: @tuttopotenza
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