La Serie C è allo sbando. Squadre escluse a stagione in corso, penalizzazioni che riscrivono le classifiche, un sistema che continua a mostrare falle strutturali senza che nessuno intervenga davvero. Taranto e Turris fuori dal campionato, Triestina e Messina penalizzate di quattro punti. Lucchese penalizzata di sei, con i calciatori che da 8 mesi non percepiscono gli stipendi e una situazione surreale, che ha spinto la squadra ad entrare in sciopero la scorsa settimana con la minaccia di non scendere in campo – sciopero poi revocato, con la promessa di sbloccare le retribuzioni dello scorso trimestre, ma un caso grottesco che sta inficiando la correttezza del girone ed è ben lungi dal risolversi.
È un torneo inquinato da società che entrano e escono senza vere garanzie, alterando l’equilibrio della stagione e minando la credibilità della competizione. Non è forse, senza voler esagerare con le parole ma anzi pesandole profondamente, anche un campionato falsato? Come può una squadra accettare che la propria posizione in classifica dipenda da fallimenti e penalizzazioni altrui? Non si tratta più solo di una questione di rispetto delle regole, ma di equità sportiva – lo ha detto anche Stefano Risaliti, il presidente del Sestri Levante, riferendosi ai casi Jiménez e Lucchese, e come dargli torto?.
E, ancora una volta, la Serie C non si smentisce. Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, in questi anni non è riuscito a porre un argine a questa assurda deriva. Nessuna riforma strutturale, nessuna soluzione concreta – e pensare che lo stesso Gravina, commentando la sua nomina a vicepresidente UEFA l’ha ricondotta alle “alle scelte compiute e alle politiche coraggiose e innovative che stiamo portando avanti in Italia“. Ma la verità è che il calcio italiano, e in particolare il terzo campionato professionistico, è vicino al collasso economico e strutturale.
La domanda è sempre la stessa: come è possibile che società come il Taranto vengano iscritte pur avendo già, prima dell’inizio della stagione, problemi evidenti? La scorsa estate le voci su una situazione economica disastrosa già si sollevavano, e non erano semplici mormorii. La FIGC ha garantito che il club avesse i requisiti per partecipare, altri erano più scettici. Il risultato? Una squadra costretta a schierare ragazzini, umiliata con un 7-0, prima della prevedibile esclusione dal torneo. E Gravina, in consiglio federale, ha dovuto ammetterlo:
Il vero problema è la mancanza di regole rigide e di controlli efficaci sulle proprietà dei club. Da anni si parla di una riforma, ma nessuno sembra avere il coraggio di intervenire davvero. Il calcio italiano è un sistema bloccato da interessi personali, veti e convenienze. Un paziente moribondo che non si può operare per questioni procedurali. Ogni stagione si ripropongono gli stessi problemi, le stesse polemiche, lo stesso immobilismo. Il documento della Commissione Cultura del Senato, che dovrebbe rappresentare la base per una futura riforma, sottolinea la necessità di verifiche più rigorose sugli adempimenti previsti per l’ammissione ai campionati. Ma mentre si discute, il tempo passa e il sistema continua a sgretolarsi.
Cosa fare, allora? Quali cambiamenti sono necessari per salvare la Serie C? Uno dei nodi principali è il numero di squadre iscritte. Da anni si parla di una riduzione, e non è solo retorica. Oggi ci sono 60 club, divisi in tre gironi: troppi, un numero insostenibile dal punto di vista economico. Un’ipotesi plausibile sarebbe quella di ridurre a 40, con due gironi da 20, oppure creare una Serie C1 élite e una Serie C2 semi-professionistica. Meno squadre significherebbe più qualità e meno rischi di fallimenti in corsa. Ma il numero di squadre non è l’unico problema.
Serve un sistema di controllo finanziario più rigido: chi non ha bilanci solidi e garanzie reali non deve essere ammesso. Oggi si concede troppo tempo ai club per mettersi in regola, con il risultato che, dopo pochi mesi, alcune società non riescono più a pagare stipendi e contributi. E proprio sugli stipendi si apre un’altra grande questione. La Serie C non può permettersi ingaggi fuori controllo. Si spende più di quanto si incassa, e i conti saltano. Un tetto salariale obbligatorio eviterebbe follie finanziarie e garantirebbe maggiore stabilità. Ma non è tutto.
Il problema della trasparenza delle proprietà è altrettanto grave. Chi compra una società di calcio? Da dove arrivano i fondi? Spesso non si sa nemmeno chi siano i veri proprietari. Gravina ha parlato della necessità di controlli più severi sulle partecipazioni societarie, ma senza un intervento deciso del governo è difficile immaginare un cambiamento concreto. Oggi il calcio italiano è ostaggio di speculatori senza scrupoli, molti dei quali compaiono nelle blacklist della FIGC – ma cosa diamine ci sta a fare una black list se poi non viene ‘rispettata’?. Gente che acquista, vende, fallisce e scompare, per poi riapparire qualche anno dopo con un’altra squadra.
Il caso Lucchese è emblematico, una vera e propria telenovela toscana. Tre cambi di proprietà in una stagione e ancora non si sa il destino del club, con la società chiamata a decidere se e come voglia proseguire la stagione. E poi c’è la questione dei diritti televisivi. L’arrivo della Serie C su Sky, grazie all’impegno di Matteo Marani, ha dato maggiore visibilità rispetto a Eleven Sports, ma sul piano economico non è cambiato nulla. Oggi le società incassano meno di 100mila euro all’anno dai diritti tv, una cifra irrisoria. Serve un accordo più vantaggioso con broadcaster nazionali e piattaforme di streaming, per garantire ai club un minimo di stabilità economica.
Lo stesso discorso vale per gli impianti sportivi. Troppi stadi sono vecchi, fatiscenti, inadeguati. Un piano di investimenti, con incentivi per chi decide di ristrutturare, potrebbe rappresentare una svolta. Perché uno stadio moderno non è solo un costo ma una risorsa. Ma anche qui servirebbe un intervento governativo. Si parla da mesi della necessità di una riforma, di nuove regole per evitare il ripetersi di stagioni come questa, ma nulla cambia. Mesi di promesse, incontri, trattative, per poi concludere con la solita italianissima morale: parlare di cambiare tutto affinché nulla cambi – un’evoluzione anche rispetto al Gattopardo.
Il calcio italiano è bloccato da equilibri di potere consolidati e intoccabili. Gravina ha concesso alla Serie A una maggiore autonomia organizzativa e un diritto di veto assoluto su ogni decisione che la riguarda. Un meccanismo che impedisce qualsiasi riforma, mantenendo il sistema in un’eterna paralisi. Durante l’ultima assemblea di Lega, il presidente della Serie A, Lorenzo Casini, è stato chiaro: “Se le altre componenti fossero unite nel richiedere la riduzione del numero delle squadre di Serie A? La risposta sarebbe che è un diritto della Serie A decidere il numero delle proprie squadre”.
E Gravina? Continua a parlare di sostenibilità e riequilibrio, ma nei fatti ha mantenuto lo status quo. Un atteggiamento prudente? Forse. Ma il sospetto è che il vero obiettivo sia stato quello di consolidare il proprio potere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: riforme annunciate ma mai realizzate. Matteo Marani, sempre più isolato al timone della Lega Pro, ha chiesto di anticipare l’entrata in vigore dei nuovi criteri di iscrizione già dalla prossima stagione. Ma sarà possibile? O si continuerà con deroghe e proroghe, rinviando il problema di un altro anno?
Oggi la Serie C è un campionato dal patrimonio culturale e calcistico enorme (quanti grandi piazze, quante meravigliose tifoserie!) ma economicamente senza futuro, se non ci saranno cambiamenti radicali. O si interviene subito, con riforme vere e regole stringenti, o continueremo a raccontare gli stessi fallimenti, le stesse penalizzazioni, le stesse classifiche riscritte. Perché il punto è proprio questo: non serve un ritocchino, o una misura spot tanto per poi dire di averla fatta. Serve un terremoto che scuota, e cambi, le fondamenta del sistema.
Autore: Redazione
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